Capitale di un pianeta distante
Un giorno a Hong Kong
Ne parlavo in occasione della nostra rocambolesca uscita dalla Cina. Raccontavo di come questa metropoli mi fosse rimasta piantata dentro, mi avesse lasciato la voglia, sulla lunghissima strada per l’Asia interna, di scoprire qualcosa di più su di lei.
Durante il viaggio d’andata non ne avevo scorto, di passaggio in attesa del visto, che il lato più appunto metropolitano. Traffico, sporco, puzza, sudore, inquinamento, rumore, caos di Kowloon e Tsim Sha Shui. Gente di ogni origine, negozi di ogni merce, palazzi di ogni forma e dimensione, colori. Una mecca per chi ama shopping, incontri, tecnologia, vita notturna. Sorprendente per chi ama uno sfarzoso spettacolo rutilante di luci e colori come la Symphony of lights. Multietnica come pochissimi altri luoghi al mondo. Il contesto surreale e un tantino inquietante del labirintico Chungking Mansion dove avevamo dormito in minuscole stanzette… Tutto interessante, senz’altro; affascinante, a suo modo, anche. Un set ideale per ambientarci storie, senza alcun dubbio.
Ma di quei tre giorni, in attesa del visto per la Cina, erano state due le stoccate che poi, nei due mesi successivi, avrebbero cicatrizzato lasciando il segno, costringendomi a un ritorno: il colpo d’occhio sulla skyline fantastica dell’Isola, afferrata dal lungomare della Avenue of stars (d’accordo, lo ammetto, sì, ho fatto la foto con le mani nel calco di quelle di Jackie Chan, contenti?), e poi una breve passeggiata sull’Isola stessa, raggiunta con la centenaria Star Ferry, nel cuore della City, su e giù per viuzze strette dove si alternavano bancarelle di venditori di tè, ristorantini rusticissimi di wanton e palazzi giganteschi. Era stato un giro davvero troppo breve.
Adesso sono a casa da due settimane, nel frattempo ho visto luoghi più vicini e ben più straordinari (forse, in effetti, il luogo più bello che abbia mai visto, e che racconterò), ma del secondo soggiorno a Hong Kong, con annessa passeggiata a Lamma Island, resta vivo il ricordo prezioso di una giornata deliziosa.
Dopo il nostro arrivo all’albergo, laddove si chiudeva il “capitolo” precedente, ci siamo mossi la mattina seguente di buon’ora. Dopo aver raggiunto Central con il bus – ci sono bus fantastici a HK – scendiamo e passeggiamo a piedi verso i moli dei traghetti.
Questo è il vero cuore della città, niente a che vedere con lo sporco, il traffico e il rumore di cui sopra.
La prima cosa che t’investe è il profumo del mare, mescolato a quello di mille stili culinari diversi, mescolato ancora a qualcos’altro d’indistinto. Porto dei profumi, è questo il significato del nome di questo luogo, e adesso capisci perché. E capisci perché gli inglesi se la sono tenuta stretta…
Cammini ai piedi di grattacieli alti quattrocento metri, palazzi di vetro e metallo dalle linee leggere, raffinate, sinuose, che cedono il passo a edifici antichi e minuscoli templi di pietra. Il traffico è contenuto e l’aria è silenziosa. Prosegui alternando mezzi pubblici modernissimi a tunnel sopraelevati di metallo che permettono ai pedoni di evitare gli scarichi delle auto e gli attraversamenti stradali, è una lunghissima teoria di condotti come d’astronave.
Ecco, è proprio quella la sensazione. Una città rubata a un pianeta distante, descritta da un bravo autore di fantascienza. Non solo per la modernità e la tecnologia, ma per l’armonia, come scopriremo man mano, con cui tutto questo futuro si integra con il presente e con il passato dell’uomo, e con la natura circostante.
Un rimescolio di profumi di culture e popoli, fittissimo: senti le influenze occidentali, lo stile europeo e la tradizione cinese, la magia indonesiana, la tecnologia giapponese. E molto altro, unico e proprio di dove sei.
Raggiunto il porto turistico, saltiamo – dopo esserci concessi una colazione su un terrazzino pubblico – a bordo di un traghetto per Lamma Island. Allontanandoci, ci godiamo lo spettacolo della skyline dal retro scoperto del vecchio barcone rollante, con la mole slanciata e aggressiva dell’IFC building contro un cielo di tempesta, e la sterminata, variegata e rapsodica distesa di grattacieli attorno. Sull’altra sponda svettano i colossi di Kowloon, all’ombra del gigantesco (484 metri) ICC building.
Mentre osservo dal barcone, penso che sì, tutto sommato la nostra epoca lascia qualche opera che, tra qualche secolo, potrà essere ammirata forse come noi facciamo con i castelli del Medioevo e con le cattedrali rinascimentali.
Ci allontaniamo e, pare un sortilegio, appena svoltato il promontorio ci troviamo davanti a una costa tropicale lussureggiante e intatta.
Più avanti si allunga Aberdeen, dove sta anche il nostro albergo, altro nugolo di grattacieli digradanti dal picco verso il mare.
Poi prendiamo il largo.
Lamma Island è a una mezz’ora di navigazione, eppure sembra di attraversare un wormhole e trovarsi su un lontano satellite.
Sbarchiamo nel villaggio di Yung Shue Wan (baia dei banani) costituito, in sostanza, da un’unica via costeggiata di ristorantini di pesce e negozietti di frutta e verdura. Qualche tempietto e piccole case. E soprattutto niente automobili: qui non sono ammesse. C’è soltanto una stradicciola pedonale che collega questo insediamento all’altro lato dell’isola, dove siamo diretti, Sok Kwu Wan, ancora più limitato e abitato solo da pescatori e caratterizzato da una raffica di ristoranti di frutti di mare. Esiste solo un terzo scalo, Mo Tat, giusto un paio di baracche di pescatori. C’è una grossa centrale elettrica, un altrettanto grosso impianto eolico, due spiagge di sabbia bianca ombreggiate da grandi alberi tropicali.
E nient’altro, su questo fazzoletto di terra di 13 Km quadrati.
Il resto, che scopriamo camminando su per la mulattiera che l’attraversa da est a ovest, è una vegetazione dalla forza violenta, coloratissima, viva da far spavento.
Raggiungiamo nel giro di una mezz’ora la spiaggia bianca di Hung Shing Yeh, dove la presenza di una utile rete antisquali consente di fare il bagno senza perdere pezzi.
C’è un locale sulla spiaggia, un piccolo bar. D’improvviso dà un annuncio all’altoparlante: una voce con flemma tutta britannica comunica che sta per arrivare una tempesta, e di allontanarsi quindi dalla spiaggia.
Guardiamo il mare e c’è qualche nuvola, d’accordo, ma nulla di che. Sommando questo dato osservativo al tono rilassato del messaggio, scrolliamo le spalle. “Tiriamoci assieme e rimettiamoci in cammino, in ogni caso,” suggerisce Valentina. “Tanto ormai si sta facendo tardi comunque.”
Approvo e in breve ci rimettiamo in marcia.
E dopo un attimo, salendo per il pendio che ci conduce verso la foresta, lo vediamo. Un muro nero, ribollente, che arriva dal mare precipitandosi su di noi.
Guardiamo la foresta, che potrebbe offrirci un qualche riparo: ce ne separa un tratto di sentiero serpeggiante su una costa tappezzata di vegetazione bassa, un tratto troppo lungo.
Corriamo comunque. Veniamo investiti. Gli ombrelli di cui siamo equipaggiati sono del tutto inutili perché l’acqua vortica tutt’attorno, sale persino dal basso; più che pioggia, è come se d’un tratto l’aria attorno a noi si fosse sciolta e fossimo finiti in una centrifuga. Calda, però. Non dà fastidio, sembra di fare una doccia. Ci mettiamo a ridere.
Luna si addormenta persino nella fascia sulla schiena di Valentina…
Raggiunto il porticciolo, dove oltre all’imbarcadero e ai ristoranti non c’è che un complesso di baracche galleggianti di pescatori, saltiamo su un barcone di legno, vegliardo davvero e scricchiolante, che ci conduce a Aberdeen.
Il porto del quartiere ci accoglie più raccolto e meno scintillante rispetto a quello da cui siamo partiti, ma l’anima della città qui emerge chiarissima: attorno a noi volano grossi falchi pescatori, ci addentriamo in mezzo a vecchi barconi scassati dipinti di colori sgargianti, avanzando come in un fiordo le cui pareti non sono rocce ma grattacieli.
La giornata continua, e scopriamo altri angoli sorprendenti e altri sapori di questa città seducente e misteriosa, eppure familiare e accogliente. Conturbante, e insieme efficientissima.
Quindi il rientro, la mattina dopo, con l’aeroporto futuribile che di nuovo ci stupisce per l’incredibile facilità di raggiungerlo con i mezzi e la sua straordinaria comodità e organizzazione.
E poi, verso casa.