Fuori via sul diabolico principe delle Orobie

Pizzo del Diavolo di Tenda (2916 m), Canale del Diavolino (con anello Longo-Calvi), in giornata, 09/09/2011
Fotografie di Valentina Erba e mie

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Dopo il Cevedale, volevamo fare un’ultima uscita estiva. Ormai la stagione si andava chiudendo e il tempo non era più molto, specialmente se organizzare un’assenza di due giorni è complicato perché hai due bambine da piazzare.
Alla fine, decidiamo per un giro lungo, ma di un solo giorno, che sia vicino così da non comportare troppe ore d’auto.
I miei, di recente, sono stati con mia figlia maggiore al rifugio Calvi, in alta Val Brembana, e mio padre mi ha parlato molto bene di quei luoghi così prossimi a casa (in linea d’aria la distanza è ridicola), ma a me ancora sconosciuti. E ha suggerito a me e Valentina un’ascensione al Pizzo del Diavolo di Tenda, la più alta montagna della valle con i suoi 2916 metri e “principe” indiscusso delle Orobie.
Informandomi un po’, mi convince l’idea di unire all’ascensione l’anello che parte da Carona (1100 m) e passa dal rifugio Longo, conduce alle sorgenti del Brembo, da dove si sale all’attacco della scalata vera e propria; quindi si ridiscende per la via di salita e dalle sorgenti del Brembo si prende per il rifugio Calvi, e da qui di nuovo a Carona.
Da fare in giornata è un giro bello tosto: 30 Km, circa 2100 metri di dislivello, e l’ascensione al pizzo di per sé è facile, ma è pur sempre di carattere alpinistico.
Approvato.
Ma si sa, la montagna è imprevedibile, e faremo una cosa un po’ diversa…
Arriviamo a Carona alle 6.30 e dopo un quarto d’ora ci mettiamo in marcia. Il paesino è tranquillo, silenziosissimo, non c’è nessuno in giro e non troviamo neppure un panificio aperto. Poco male, ci arrangeremo con ciò che abbiamo.
Il primo tratto di percorso, attorno a quota 1100, è una carrozzabile nel bosco dove ci disturba il passaggio di varie moto e fuoristrada, dirette a alpeggi e ai due rifugi.
Il luogo è comunque piacevole, superiamo un antico borgo e alcune malghe; accanto ci scorre un torrente e scrosciano cascate. Siamo lieti quando, dopo circa un’ora di marcia, sulla sinistra un cartello ci indica il sentiero che porta al rifugio Longo. Torneremo su un’altra carrozzabile poco oltre, ma meno battuta di quella per il Calvi, poco più di una mulattiera. Si annuncia una giornata di tempo magnifico.

Il bosco si fa meno fitto e respiro un po’ meglio. Il cammino procede sul versante pratoso, con una bella vista sulla testata della valle, chiusa dal Monte Aga. Il cammino è piacevole nell’aria fresca dell’aurora, e raggiungiamo rapidamente il bianco rifugio Longo, quota 2026.
Da qui la strada finalmente si fa sentiero e comincia a impennare. Sono passate circa due ore e il sole comincia a alzarsi. Saliamo a costeggiare la diga che forma un lago serrato e sovrastato sul lato opposto dalla parete grigio chiaro dell’Aga – ha un che di dolomitico nelle fattezze. Quindi saliamo su roccette e sentiero verso il passo di Selletta, un intaglio a quota 2372 ben visibile da qui nella costa che separa la valle del monte Sasso – dove ci troviamo – dalla parallela valle Camisana, alla nostra destra.
Si sale che è un piacere nel fresco, verso il sole che si leva poco sopra il passo gettando barbagli. Dall’alto ci spiano camosci.

foto V.E.

Superato il passo, il panorama è idilliaco. Si apre davanti a noi la larga conca del rifugio Calvi, dove il neonato Brembo corre giù in piccole cascate e riflette la luce tra i pascoli verdissimi. Ci troviamo su una cresta erbosa che si perde verso est e ovest.

E a est adesso appare con aria in effetti principesca la nostra meta. Il Pizzo del Diavolo di Tenda, in questo contesto prealpino fatto di forme mai troppo severe, di dimensioni imponenti ma discrete, raccolte, e di tinte delicate – il tutto ben diverso dalla grandiosità minacciosa dei panorami alpini – spicca con la sua piramide di circa 500 metri di roccia spoglia e irregolare posta sopra possenti pendici erbose e di sfasciumi di simile altezza, con il suo solido equilibrio geometrico.
Accanto, lungo la cresta sud, spunta il Diavolino, un clone grosso circa un terzo, dall’aria più acuminata e cattiva.
Oltre il passo di di Valsecca (quota 2495), alle pendici del Diavolino, si erge la parete verticale del Pizzo Poris, che lascia poi spazio al bastione roccioso del Monte Grabiasca.

foto V.E.

Sono belle montagne, e le ammiriamo mentre ci avviciniamo camminando lungo la cresta e poi scendendo in un pianoro erboso perdendo a poco a poco trecento metri abbondanti di dislivello. Attorno a noi non c’è nessuno e dal rifugio Longo in poi non abbiamo visto un’anima. Ci sono solo centinaia di marmotte che ci fischiano attorno mentre lungo un saliscendi raggiungiamo una morena di sfasciumi nerastri e sgradevoli, che sale ripida fino a una bocchetta riportandoci attorno ai 2142 m del nuovo pianoro, che ospita le sorgenti del Brembo.

Il luogo, selvaggio, merita davvero una visita, è di per sé una meta più che degna. L’acqua sgorga da sotto una calotta di ghiaccio, risuonando tra le rocce del circo montuoso che la racchiude. Per il resto è silenzio e una pace sacrale.
Noi da qui dovremmo imboccare un sentiero che ci condurrà, in un’oretta di marcia costeggiando le pendici del Diavolo per prato e sfasciumi, su fino alla bocchetta di Podavit (quota 2624), dove attacca la cresta Nord, la via normale che con 300 metri di dislivello porta rapidamente in vetta.

Vediamo un sentiero, ma non ci pare il nostro perché mi aspettavo un masso con scritto “Pizzo Diavolo”, avendo tratto questa informazione da una relazione consultata.
Scopriremo solo al ritorno che il masso esiste, ma si trova sull’altra sponda del torrente, e lo si incontra solo provenendo dal rifugio Calvi…
Quindi andiamo erroneamente oltre. Fino a ritrovarci proprio dove inizia la rampa per il passo, a pochissima distanza dalle falde del Diavolino.

Capiamo di essere andati lunghi. Che fare? Torniamo indietro a imboccare il sentiero che abbiamo visto? Oppure… Oppure c’è quel canale che scorgiamo bene ormai da un pezzo. Si infila con evidenza, esposto a ovest, tra il corpo del Diavolino e quello del Diavolo, raggiungendo poi la cresta sud vera e propria nell’incavo – a quota 2730-2750 circa, stimo – che separa le due cime.
Per raggiungerlo occorre salire per sfasciumi fino all’imbocco, che si trova – a occhio – tra i 2560 e i 2580 metri, è infatti un pezzetto più in alto del passo di Valsecca.
Il “nostro” canale sale quindi per più di 150 metri di dislivello, dopodiché si percorreranno sulla classica cresta sud i restanti 160-180 metri.

foto V.E.

Il canale, a vederlo da qui, mi pare avere una bella linea logica. Non mi sembra nascondere particolari insidie.
Senza dubbio è un percorso un po’ più lungo e un po’ più impegnativo di quello che avevamo preventivato, ma…
Dopo un rapido scambio con Valentina, decidiamo di affrontarlo: entrambi preferiamo l’idea di una traversata a quella di un percorso andata-e-ritorno dalla stessa via normale. E ci sentiamo entrambi in forma.
La salita su sfasciumi si fa via via più complessa perché il terreno è davvero molto rotto. Dopo aver recuperato Valentina che si era infoppata nel letto asciutto di un torrente (chissà che ci è andata a fare, mi chiedo tuttora), traversiamo verso l’imbocco del canalone, dove sono convinto di trovare terreno migliore e bello roccioso.

Qui superiamo qualche passaggio su roccette frantumate e ciuffi d’erba, lamine di mica che si accatastano come castelli di piatti da lavare e ballano sotto le mani e sotto i piedi. Alcuni di questi passaggi cominciano a essere esposti. Nessun baratro sotto di noi, ma brutti voli di qualche metro sì. Stiamo attenti.

All’imbocco del canalone siamo delusi: qui la roccia cambia, ci accolgono scisti grigiastri venati di quarzo – che da lontano mi aveva persuaso essere sano -, ma il terreno si rivela ben diverso da come appariva.
Anche qui tutto si muove.
Non c’è un appiglio o un appoggio sul quale si possa davvero contare.
Tuttavia, tornare indietro proprio non ci va. Procediamo.

A mano a mano che saliamo la situazione si fa più preoccupante.
Io bado di non superare passaggi di non ritorno, ma mi rendo conto che siamo andati a ficcarci in un budello infernale.
Certo, se avessi portato un pezzo di corda – ma non prevedevamo nulla del genere – sarebbe tutto ben diverso e ci staremmo solo divertendo. Ma la corda non ce l’ho, e ho commesso un grosso errore di valutazione sulla difficoltà della via…


La pendenza è decisamente più notevole di quanto stimavo, e cominciamo a trovare passaggi verticali.
Non c’è nulla che superi un III grado abbondante, perché la roccia è ricchissima di fessure e irregolarità e spuntoni da sfruttare per salire. Il problema è che ballano, minacciano di staccarsi – e si staccano.
Più di una volta mi rimangono in mano grosse rocce che devo poggiare per evitare arrivino in testa alla mia compagna.

Occorre muoversi come gatti.
Senza mai fidarsi di nulla e senza mai davvero spostare tutto il peso su un arto.

Si tratta di un’arrampicata tesissima, perché qui un volo sarebbe fatale e non abbiamo modo di assicurarci.
Mi do ripetutamente dell’idiota per aver condotto lei in questa situazione, senza avere la possibilità di aiutarla se non a voce. E questo è quanto mi sforzo di fare, indicandole gli appigli peggiori e cercando di tranquillizzarla, spiegandole che ha superato mille volte pareti ben più difficili. Occorre solo tastare gli appigli, uno per uno, muoversi senza fretta, leggeri. E mantenere la calma, soprattutto.

Per fortuna, la roccia si fa meno marcia salendo, e in cresta sembra ottima, e di sicuro la pendenza lassù è molto minore. Inoltre, so per certo che la cresta sud è una via percorsa spesso… mentre ora capisco bene perché la via che stiamo percorrendo non era menzionata in alcuna relazione e non c’è il minimo segno di passaggio.
Si tratta di concentrarsi. Siamo a due terzi della salita. Davanti a noi si alza un muretto verticale molto infido.
Superato questo, non mancherà molto.

Esco sulla sinistra del canalone, spostandomi di qualche metro sulla parete ovest, molto più esposto, ma mi pare più semplice. Guadagno con attenzione pochi metri e mi fermo su una cengia in attesa di Valentina, che mi raggiunge. La vedo in difficoltà, lei solleva lo sguardo e mi dice che sta andando in crisi, cercando di mantenere ferma la voce – ma gli occhi le tremano. La tensione è difficile da sostenere, ogni passo è come calpestare grumi di pasta frolla, ha più di 1500 metri di dislivello nelle gambe, indossa scarponcini da normale trekking e le dita le dolgono. Ha il viso teso e cerca di nascondere il timore.
Appena mi raggiunge le dico di sedersi e mangiare un pezzo di cioccolato.
Le chiedo se ha paura.
«Non è una bella situazione, no?» mi domanda, forzando tranquillità. Questa donna è d’acciaio.
«Eh», rispondo. Non so bene cos’altro aggiungere. Se non un “mi dispiace”. Comunque vedo che sta meglio.
«Aggiro questo sperone», le propongo. «Tu stai qui, così vedo se di là è meglio e vieni anche tu».

Lei annuisce. Mi allontano traversando verso sinistra. E finalmente qualche antica divinità aliena è dalla mia parte.
Oltre lo sperone la parete ovest ha una pendenza molto più dolce.
Gradoni erbosi – e se l’erba ha cacciato radici, significa che la roccia sta un po’ più assieme che nel canale – sembrano permettere una facile ascesa.

Chiamo Valentina sorridendo, e mi raggiunge e saliamo senza fatica, fino a reimmetterci nel canalone superate le difficoltà del muro. Ora ci aspetta solo un ultimo salto, e saremo nell’intaglio e sull’agognata cresta sud.
Davanti a noi si apre una specie di caverna, formata da un enorme masso incastrato tra le pareti quasi a camino.


La buona notizia, però, è che qui la roccia è finalmente solida, e anche se la parete sulla sinistra è verticale, non mancano buoni appigli.
Salgo, aggiro la caverna e emergo rapidamente sopra il grande masso: sono nell’incavo. La cresta è raggiunta!

La salita lungo la cresta sud è facile (II grado) e, grazie alla roccia scistosa sorprendentemente sana e compatta, è un vero spasso.
Ci sono passaggi esposti da cui si gode una magnifica vista aerea, ma nulla di realmente insidioso.

foto V.E.

Valentina è stremata, più che dalla fatica vera e propria, dallo stress psicologico. Di certo anche il dislivello affrontato e le ormai sei ore di marcia e arrampicata contribuiscono. Ma stringe i denti.

Superiamo terrazzini, piccole guglie e incavi, ci si muove lungo il filo di cresta talvolta spostandosi da un lato o dall’altro di pochi metri. Il percorso è ricco, bello e vario, fino a quando – dopo un paio di gendarmi che davano l’illusione di essere arrivati – emerge la piccola piramide metallica che indica la vetta del Pizzo del Diavolo.


È la una del pomeriggio.
La raggiungiamo e ci sediamo (lei in effetti si sdraia) a goderci una vista magnifica che spazia su tutte le Orobie e fino al Resegone, che si distingue tra le vette prealpine tutte simili come un gorilla si distinguerebbe in un albergo a cinque stelle.


Vicine si ergono le pareti del Pizzo Coca e del Redorta, mentre là a nord, in una linea fantastica d’orizzonte seghettato, biancheggiano le moli immense del Monte Rosa e del gruppo del Bernina, il Disgrazia e il Badile, e là scorgiamo il gruppo dell’Ortles-Cevedale, e lo sguardo si muove da sinistra a destra e da destra a sinistra a abbracciare questa manifestazione sterminata dell’arco alpino.

Contemplo attorno e di nuovo apprezzo la differenza di questo paesaggio, rispetto ai panorami alpini glaciali.
Questa è una bellezza più discreta, più contenuta – ospitale nel suo essere selvaggia. Non induce quel senso straniante delle vette ghiacciate, che fanno sentire te un alieno. Non ti annichilisce, ti fa solo sentire bene. Qui c’è un profondo contatto intimo con questa natura forte, viva.
E oggi c’è anche la sensazione, quella che ti fa sentire altrettanto vivo – e profondamente provato -, di averla scampata…

Ci raggiunge in vetta solo un altro alpinista, anche lui proveniente dalla cresta sud. Ci chiede da dove siamo saliti e si stupisce perché non ha mai sentito di nessuno salito da lì. Cosa che invece non stupisce affatto me…

La discesa lungo la via normale, effettivamente facile ma bella, è una piacevole passeggiata tra spuntoni e sfasciumi, mai troppo esposta e su una linea molto logica. Dopo l’avventura della salita, scendiamo godendoci la cresta a balzelloni. Il paesaggio è splendido lungo la dorsale che si stende serpeggiando fino alle montagne familiari della Valsassina.

Raggiunta rapidamente la bocchetta di Podavit, voltiamo a sinistra, raggiungiamo un ampio nevaio a quota 2500 con una vista superba sul monte che abbiamo appena traversato. Ha davvero un’aria diavolesca visto da qui, e adesso che conosciamo le sue insidie nascoste gliela riconosciamo più facilmente.

foto V.E.

Poi giù per la costa fino alle sorgenti del Brembo, dove Valentina riposa i piedi tuffandoli nell’acqua gelida con un gran sospiro di sollievo. Io la imito, e l’acqua limpida e sussurrante è proprio un toccasana.

Il tratto che porta verso il rifugio Calvi ci riserva uno scenario incantevole. Il torrente frusciando si getta in cascate lucenti, la vegetazione è rigogliosa e si spandono attorno innumerevoli profumi e qua e là pascolano vacche. Gli alberi sono colorati di bacche. Si alternano prati, macchie verdi, pozze limpide e bastioni chiari rocciosi.
Ci rilassiamo.

foto V.E.

Al rifugio Calvi, in una mirabile posizione sopra una muraglia rocciosa a picco sullo scintillante lago Rotondo e in mezzo a un contesto lussureggiante di acqua e flora, ci fermiamo a premiarci con una bibita. Camminiamo da quasi dieci ore e ci sta. Chiacchieriamo con il gestore che ci chiede da dove veniamo e anche lui si stupisce quando gli diciamo che abbiamo salito il canale. Anzi, aggiunge che ci pensava proprio qualche giorno prima, se si potesse provare a salire di lì…
Valentina e io ci scambiamo uno sguardo ironico. Ritengo impossibile che abbiamo fatto una “prima”, ma mi sa che poco ci manca.

L’ultimo tratto è su strada sterrata, che rientra nel bosco e non è particolarmente divertente, ma nemmeno spiacevole, e costeggiamo dei bei laghi – quello di Fregabolgia e quello del Prato – chiusi da dighe, con acqua diafana quasi da cale caraibiche, non fosse che stiamo un migliaio di metri abbondanti troppo in alto, e probabilmente la temperatura dell’acqua è tutt’altro che tropicale.

Arriviamo all’auto verso le sei del pomeriggio, dopo quasi dodici ore di cammino e arrampicata. I piedi di Valentina sono talmente malmessi che appena tocchiamo l’asfalto leva le scarpe e procede a piedi nudi. Ma procede.

Una via misteriosa seppur evidentissima, perigliosa e senza nome (anche dalle mie ricerche in Internet: nessuna traccia, “Canale del Diavolino” l’ho battezzata io non trovando altro), e una traversata insolita, inserite in un anello di 30 Km e circa 2100 metri di dislivello. Posti bellissimi e vicini a casa.
Be’, niente male per chiudere a dovere l’estate…

Solo una cosa: la via nel canale è bella, ma è davvero troppo pericolosa a causa della roccia marcia: non ne vale la pena. Non andateci, o quantomeno andateci ben attrezzati.