Il Monte Bianco è ovunque
Gran Trail Courmayeur (60 km, 4000 m dislivello positivo), 09/07/2016
fotografie di Valentina Erba (V.E.) e mie
Reportage
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Il Monte Bianco è ovunque.
Sembra quasi sbagliato. L’impressione netta è che Gaia, finito di montare le Alpi qualche annetto fa, avesse dimenticato di aver serbato una manciata di splendide montagne per il gran finale, ricordandosene poi soltanto quando non c’era più spazio a disposizione. Che fare? Be’, ammonticchiamole qua, una sopra l’altra. E perché no?
A vederle da qui, dalla balconata del Monte Favre dall’altra parte della Val Veny, non si riesce nemmeno più a concepire dimensioni e distanze, e si resta perplessi e sconcertati. È ovunque. È tutto il giorno che corro e il Monte Bianco è sempre lì nelle sue infinite forme, ora con la lama gigantesca della Cresta di Peuterey protesa avanti con spavalderia a tagliare una fetta di cielo, ora con le immense seraccate del Ghiacciaio del Miage a osservarmi come un sorriso torvo; ora con la Cresta dell’Innominata che serpeggia giù tra la lingua biforcuta dei ghiacciai come in fuga dalle canne di granito dei Piloni del Brouillard e del Freney, e sempre, letteralmente soprattutto, con il prisma del corpo sommitale come una testa squadrata e impassibile.
Il Monte Bianco è lì ogni volta che mi volto, che si distende da un capo all’altro dell’orizzonte.
Lo spigolo nord dell’Aiguille Noire è alto cinquecento metri, lo so. Eppure non può esserlo, perché allora quanto è grande tutto ciò che lo ingloba rendendolo solo uno spuntone sul dorso del mostro?
Mi girano in testa questi pensieri mentre arranco su verso la vetta del Favre. La crisi è arrivata e ci sto in mezzo. Una vocina interiore mi apostrofa: “Ehi stai correndo insieme a Valentina che va più piano di te potresti andare molto più di così non dovresti mica essere in crisi dovresti saltellare qua e là come un giovane camoscio.” Ribatto alla vocina inopportuna che quarantacinque chilometri, tremilacinquecento metri di salita e tremila di discesa, e svariate ore di sole spaccasassi sono sempre quarantacinque chilometri, tremilacinquecento metri di salita e tremila di discesa, e svariate ore di sole spaccasassi. E poi Valentina non è che vada piano, tant’è vero che siamo a metà classifica per ora. E poi tu che ne sai, troppo facile per te startene lì nella mia testa a commentare, provaci tu e poi vediamo.
Mi calo un integratore che mi riservavo per la vetta.
Le gambe hanno cominciato a non funzionare poco fa. Ero andato un po’ avanti chiacchierando allegramente con un altro trailer su questa che è la penultima salita della gara, circa cinquecento metri di dislivello, e stavo benissimo, nessun problema. Mi sono fermato ad aspettarla più o meno a metà, e quando lei è arrivata e sono ripartito nelle mie cosce però mancavano all’appello i quadricipiti. Poi ha cominciato a farmi male la testa. Forse sto pagando i cinque chilometri di bella sterrata pianeggiante giù dal Rifugio Elisabetta fino al mondo acqueo del Lago Combal, mentre ci lasciavamo alle spalle le pinne di squalo delle Pyramides Calcaires. La pianura mi logora sempre. Adesso butto un piede davanti all’altro per pura volontà, pensando al movimento necessario per effettuare ogni passo.
Intanto guardo i Piloni del Freney, là sospesi nel cielo sopra il ghiacciaio dall’altra parte della Val Veny, e penso alla tragica ritirata di Bonatti, Mazeaud e i loro compagni nel 1961 dopo quella spaventosa tempesta sulla Chandelle. Il ghiacciaio che se li prendeva, a uno a uno. I fulmini, la neve, il freddo, il buio, la fame. E d’improvviso mi sembra molto più facile continuare a procedere nonostante la mia piccola crisi.
Ecco la vetta. Ci fermiamo qualche secondo, mangio un paio di fichi e cachi secchi, vorrei bere ma le due borracce sono vuote da un po’ – ci sono più di trenta gradi oggi, e siamo a oltre 2500 di quota.
Valentina mi consiglia di mettere la bandana in testa, e sembra una magia: sto subito meglio e mi rendo conto che in buona parte stavo svarionando per il sole implacabile. Lei mi fa anche notare che sono mezzo bruciato. Ehi, è vero! Da mia sana abitudine, ho dimenticato di mettere la crema solare, che ovviamente è nel mio zainetto dove si sta rivelando estremamente utile. Be’, meglio tardi che mai: mi spalmo per benino.
Si riparte. Iniziamo la bella discesa per la Maison Vieille, dove ci aspetta il quarto e ultimo ristoro del percorso – bere! – e presto tutto ricomincia a girare bene, molto bene. Allungo il passo e dico a Valentina che l’aspetto al ristoro, ho voglia di lasciare andare le gambe un po’. Crisi finita.
Valentina, la sua prima crisi (ne avrà un’altra prima della fine) l’ha già archiviata da una ventina di chilometri…
6.00, Courmayeur. Pronti per la nostra prima esperienza su un percorso di gara di questa portata. Pronti? Si vedrà.
Partiti tranquilli con un’alba rosa che lambiva il solo Dente del Gigante e coi boschi neri che sollevavano le Jorasses, siamo scesi per circa cinque chilometri fino a Pre’ Saint Didier per imboccare il sentiero dell’Orrido e macinare subito dislivello.
Attorno, nel bosco scuro e silenzioso se non per lo scroscio del torrente, il gruppo, o meglio il serpentone ancora compatto procede altrettanto silenzioso. Vedo i volti arrivati a rendere omaggio al Monte Bianco da ventidue nazioni: chi sta passando in rassegna i segnali del suo corpo, chi sta chiedendosi se si è allenato a sufficienza, se ce la farà (e come), chi medita, chi fa i conti con una nottata agitata.
Personalmente, facevo i conti con orribili legnosità di gambe e schiena che con la corsa avevano poco a che vedere: sorvolando sul piccolo errore sulla data della gara – che per ragioni insondabili era segnata in pennarellone da mesi sul nostro calendario il 10 piuttosto che il 9 – c’è stato un brutto incidente sulla A4, purtroppo con vari morti, e siamo arrivati tardissimo, appena in tempo per il ritiro dei pettorali (grazie agli organizzatori che hanno aspettato una mezz’ora in più) e troppo tardi per andare realisticamente a cercare il campeggio e montare la tenda. Cinque ore di auto, guida schumacheriana (e la guida non è il mio forte) al buio, e quel che restava della nottata in macchina (e no, i signori coreani che hanno progettato la nostra vettura non avevano in mente questo utilizzo): il risultato è che mi sono alzato sentendomi più o meno come una lattina accartocciata.
Ma quando, dopo i primi mille metri di salita, arriviamo tra mandrie di mucche al pascolo al Vallone di Youlaz (e scopriamo con sgomento che si legge “iula”, senz’accento francesoide), dove c’è il primo ristoro, uscendo dai boschi e trovandoci davanti la distesa ondulata di prati alpini e, sì, il Monte Bianco che ci aspetta, ormai i muscoli hanno cominciato a entrare in funzione come si deve, e certi panorami comunque mi farebbero dimenticare i fastidi. Adesso si va proprio bene, sono passate le otto e mezza e comincia a capirsi che farà caldo ma per ora il clima è piacevolissimo e l’aria è piena di profumi. Abbiamo passato i duemila di quota. Comincio a divertirmi davvero.
Valentina procede a un buon passo senza parlare molto e con aria concentrata. Anche lei sta cominciando a rilassarsi, e man mano che sale il viso si fa più beato.
Raggiunta la cresta presso il Col Arp, si apre completamente il panorama sul Monte Bianco, e poi sembra di volare su questa aerea tratta centrale verso il Mont Fortin, a 2800 metri e rotti il punto più alto che raggiungeremo oggi.
Si sale, si scende un po’, si attraversano vari nevai che hanno coperto zone detritiche. La neve non è ghiacciata, ma nemmeno molle, bisogna fare un po’ di attenzione – per quanto i ramponcini non usciranno mai dallo zaino.
Intanto il Monte Bianco ha inghiottito tutto il lato destro della nostra visuale.
Noi scendiamo su una cresta fantastica, affilata, e poi via in costa in un continuo su e giù su sentiero stretto e divertente. Nelle discese mi butto al mio passo, perché tanto stare vicini è solo pericoloso, e perché è troppo divertente per non farlo.
Nell’ultima tratta, ricca di nevai, che ci separa dal secondo ristoro, attorno al venticinquesimo chilometro, vedo che Valentina comincia a soffrire un po’. Ha rallentato di colpo, non parla; le chiedo come va. “Tranquillo, adesso passa.” Procediamo cavalcando la cresta.
Lei mi dice che le fa male un piede in zona metatarsi, e non sembra voler passare da diversi chilometri. Che ne dici di ficcarlo un po’ nella neve e di cambiare le calze? Lo fa. Ripartiamo e raggiungiamo presto il ristoro.
Si comincia a scendere, non è una discesa ripida: ci porta giù per vasti prati, nelle conche dei quali si è accumulata molta neve che superiamo a grandi passi, gli occhi spalancati sul blu brillante dei laghetti che si affacciano in parte sotto le coltri bianche, ai piccoli iceberg che ci galleggiano.
D’improvviso, Valentina parte con uno scatto animalesco, superando un paio di avversarie e saltellando su un nevaio e il suo viso ha ripreso colore. Le chiedo se è matta (può anche succedere). Mi dice che è rinata. Le dico che non dovrebbe però fare scatti così o rimuore, lei mi insulta parecchio per la mia pedanteria e bisticciamo allegramente per un po’ tra gli sguardi divertiti e un po’ increduli dei pochi trailer vicini — ormai il gruppo ha perso anche qualunque parvenza di serpentone, e a volte non vediamo essere umano per decine di minuti, gli atleti sparpagliati sul percorso davanti e dietro di noi per chilometri.
Poi procediamo in silenzio, godendoci la vista e i colori e gli odori e l’aria e altre cose che non hanno nome ma lì ci sono, verso il Colle della Seigne, confine con la Francia e termine della Val Veny.
Si staccano certi sistemi mentali legati alla quotidianità, certi schemi percettivi soliti, e se ne innescano altri; più antichi, più profondi. La ricerca di significato viene messa in pausa, adesso non ha alcuna importanza, il tempo assume valore diverso e si fa denso. Le percezioni che arrivano da fuori e da dentro si fanno più intense e prendono le distanze dalle relative cognizioni, lasciandosi assorbire ben oltre la superficie, senza permettere di essere incasellate e archiviate. Restano. Circondano e avvolgono.
Troviamo il Colle della Seigne dopo aver superato fantasmagoriche cornici di ghiaccio che adornano torrenti. Scendiamo a capofitto per il fianco della montagna giù verso la valle.
Da qui nel percorso originale era prevista la salita al Col Pyramides, ma a causa dell’innevamento abbondante passeremo a valle delle piramidi di calcare, raggiungendo direttamente il Rifugio Elisabetta, terzo ristoro, e poi giù per il Vallone della Lex Blanche. Osservando l’altra sponda della valle, vediamo i corridori che ci seguono scendere a zigzag per la parete erbosa, puntolini di colore che formicolano giù per la montagna. Ehi, eravamo là!
Per fortuna, anche dopo il ristoro, l’acqua non manca grazie ai tanti torrentelli, perché adesso nel pieno del pomeriggio fa veramente caldo. Qui ci possiamo rinfrescare un po’ e tenere le borracce rabboccate.
E il caldo tornerà a imperversare sul serio sulla spoglia gobba del Monte Favre, dove d’improvviso, in tipica trance da trail (non tanto dissimile da una sbornia, ma di quelle buone), ho un’epifania. Ecco cosa m’inquietava in quello che stavo guardando:
Il Monte Bianco è il Pizzo Badile!
Ovvero, so che non è così. Ma so anche che le coincidenze non esistono. Quale recondito messaggio si nasconde dietro tutto ciò? Sento che, se lo capissi, il linguaggio del mondo mi sarebbe di colpo chiaro, ho davanti a me una Stele di Rosetta alta chilometri…
Poi faccio un rutto formidabile e riprendo a correre.
E poi la crisi arriva, ma questo l’ho già raccontato e quindi eccoci alla fine del flashback. Sembra impossibile che tra tre giorni (ehi, flashforward subito dopo la fine del flashback!) Valentina e io saremo respinti da vento patagonico e nevicata da 2500 metri di quota in su, durante il nostro tentativo di ascensione del Petit Mont Blanc.
Alla Maison Vieille aspetto Valentina scambiando qualche impressione con un gruppetto di atleti con cui ormai ci conosciamo, essendoci superati a vicenda un sacco di volte da stamattina e avendo condiviso tratti di percorso o un bicchiere di té ai ristori. Ormai siamo compagni di viaggio e si ride insieme mentre si beve qualcosa (e mi concedo una fettina di Fontina che ai ristori qui non manca mai, tagliata direttamente con enormi coltelli da forme enormi). Quando lei arriva, mi è appena venuto in mente che vorrei cambiare le calze: ho scarpe e calze completamente fradicie da quando ho affondato i piedi in uno dei tanti specchi d’acqua che circondavano la strada in Val Veny. No, non racconterò com’è successo. Ma adesso stanno macerando. Le dico di andare, ché la raggiungo poi. Tolgo le calze, controllo velocemente le dita che sembrano a posto, cambio le calze e mi sembra di avere piedi nuovi. Le scarpe sono ancora bagnate, ma non si può volere tutto.
Riparto e imposto un passo deciso che mi permette di riprendere la moglie sulle gobbe delle piste da sci che ci separano dall’ultimo ostacolo del percorso: il minaccioso panettone roccioso del Monte Chetif.
Sulla carta: mancano circa sei chilometri alla fine, tra circa trecento metri di salita e poi una ripida discesa di circa mille metri di dislivello. Quindi, ma sì, ci siamo. Dico a Valentina che secondo i miei infallibili calcoli, in un’oretta o poco più siamo a Courmayeur.
Ma non avevo fatto i conti con il Monte Chetif [musica di tensione].
Certo non mi aspettavo che la salita al Monte Chetif fosse un sentiero attrezzato / via ferrata con tratte su roccette praticamente verticali, con catene e tutto.
E non siamo i soli a non aspettarcelo: su questa tratta troviamo vari concorrenti fermi, con aria persa e spaesata. Uno è seduto su un sasso e si tiene la testa tra le mani. Gli tocco una spalla e gli chiedo se va tutto bene. Non risponde, ondeggia solo. Anche Valentina lo apostrofa sulla sua salute, con un po’ più di decisione professionale. Lui (un francese a giudicare dalle scritte sul suo equipaggiamento) solleva lo sguardo e pare che veda degli esseri bizzarri, facilmente alieni. Sorride un sorriso devastato, non parla e probabilmente non capisce l’italiano, ma ci fa cenno internazionale che gli viene da vomitare, ma è tutto a posto, procedete pure. Adesso passa, tranquilli. Un altro, un nordeuropeo simile a un vichingo, è talmente cotto da sbattere la testa contro uno spuntone di roccia. E ancora ci si perde sul sentiero tra i mughi, e ci si arrampica fuori via per riprendere la giusta strada. Quanti dei tanti concorrenti ritiratisi oggi (siamo partiti quasi in duecento, arriveremo in centoquaranta) hanno ceduto proprio qui, così vicino al traguardo?
Io, sinceramente, adesso sto molto bene e su questa tratta mi diverto un sacco, arrampichettando qua e là. Però mi rendo conto che chi non ha magari la stessa confidenza con la verticalità (molti trailer sono, come noi, alpinisti o scialpinisti, ma altrettanti a questa disciplina ci arrivano dalla maratona) e si ritrova con cinquantacinque chilometri e quasi quattromila metri di dislivello nelle gambe e magari non ha corso “a spasso” come sto correndo io oggi, ecco magari qualche problemino su queste placche che offrono una veduta piuttosto pregna di significato su Courmayeur mille metri di abisso più in basso, magari qualche problemino possono averlo.
E di certo la discesa non sarà da meno: la prima parte è un canalone ripidissimo, pieno di sfasciumi. Poi, un sentierino nel bosco dove si solleva un nuvolone continuo e turbinante di sabbietta finissima. Sabbia. Sì, i sentieri qui sono ricoperti si sabbia. È uno dei grandi misteri della Val d’Aosta, e non è prudente indagarne le cause.
Valentina tossisce sabbia (che continuerà a soffiarsi fuori dal naso per giorni); è andata in crisi seriamente durante la salita. Lei di confidenza con la verticalità ne ha da vendere, e arrampica molto meglio di me, però è anche molto più provata e semplicemente sentiva che le ginocchia non tenevano. E la sensazione di non potersi fidare delle gambe quando guardi Courmayeur a mille metri d’abisso sotto di te è piuttosto terribile. Le gambe, in quel momento, vorresti fossero salde come non mai. Psicologicamente, per lei è stata davvero dura raggiungere la cima – e a questo punto sta correndo tanto di testa quanto di gambe. Ha faticato parecchio a percorrere gli ultimi pochi metri che le hanno permesso di superare i massi erratici e i ciuffi di vegetazione che nascondevano il sole che finalmente cominciava a abbassarsi verso la massa del Monte Bianco. Ha faticato sulla prima tratta di discesa, così tecnica e ripida, affrontandola con la massima cautela al pari del gruppetto con il quale è scesa, e adesso nel bosco e nel polverone le sue gambe, si vede, sono rigide come pezzi di legno e riesco quasi a sentire quanto le fanno male. E non che le mie non siano pesantucce; e i miei piedi continuano a ripetermi, in maniera via via più insistente, che appena mi fermo dovremo fare due chiacchiere.
Ormai però è fatta (e quando dici così in genere arriva una distorsione), e il panorama qui è abbastanza noioso da permettermi di distrarmi: mi scorrono in testa immagini del nostro primo trail, a Pila due anni fa. Ci sembravano una sfida spaventosa quei venti chilometri per milledue di dislivello (che poi si sarebbero rivelati ventitré per millesette!), quanti dubbi e quanti timori prima di iscriverci, prima di partire, e poi la gioia di riuscire a completare la gara, il rispetto con cui guardavamo quelli che avevano fatto il percorso più lungo – di trentasei chilometri che ci parevano trentasei chilometri! – la voglia di farne altre, così intensa che ci iscrivevamo appena arrivati a casa al Gran Paradiso, la settimana dopo dove lei si sarebbe fatta male quasi all’arrivo… La mente riavvolge ancora di qualche mese, la prima volta che avevo corso per mille metri di salita, dopo essere uscito per fare un giretto senza meta precisa e poi semplicemente aggiungendo via via ancora un pezzettino perché mi divertivo. E mentre scendevo dalla Dorsale Orobica guardando quel tramonto impressionante che rendeva i laghi lastre abbaglianti e dipingeva le Alpi e la pianura e gli Appennini in colori alieni mi ricordo che pensavo – affascinato dal mondo del trail che avevo da pochissimo scoperto, quella disciplina strana che univa la nostra passione di sempre per la montagna e per i luoghi selvaggi con il divertimento e il piacere, appena scoperti a loro volta, della corsa – a come poteva essere correre in montagna per quattro, cinque ore, coprendo decine di chilometri e migliaia di metri di dislivello. Mi sembrava una cosa enorme, forse irraggiungibile. Ma adesso sono qui, sessanta chilometri meno poco, tremilaeotto saliti e scesi, e penso a come può essere correre per centinaia di chilometri e tantimila metri di dislivello, giorno e notte. E per quanto sia di certo una cosa enorme, e l’ammirazione resti incondizionata per i protagonisti delle grandi ultra, non mi sembra irraggiungibile.
La discesa, come tutte le discese, finisce. E di colpo siamo a Courmayeur – sono le sei meno un quarto e corriamo da 11h45′ – sui primi cinquecento metri di porfido che abbiamo percorso stamattina – stamattina! Era oggi. Mi sembra incredibile. È passato tanto tempo. Il tempo non si dovrebbe misurare in ore e minuti, ma in profondità e intensità.
Be’, sì, sarebbe un po’ scomodo poi per i treni.
Le ultime centinaia di metri. Gli impatti del fondo duro sui piedi fanno un male cane, le gambe sono incartate e fatico a muoverle nella giusta maniera. Eppure a ogni passo sale un calore strano, che mi fa ridere. Guardo Valentina: anche lei sta provando le stesse cose.
E poi i bambini che ti battono il cinque dal bordo della dirittura d’arrivo o ti rinfrescano annaffiandoti con la canna dell’acqua, e i visi amici, e… e poi sono troppo geloso di certe emozioni per raccontarle. (Sempre che fossi capace di farlo).
E poi i piedi a mollo nel fontanile, e le strette di mano e le risate, e la birra, e la festa del pranzo e delle premiazioni del giorno dopo, tutti insieme primi e ultimi.
Con buona pace dei treni, per il tempo occorrono misure sottili e complesse, e la sua densità è assai variabile: quanta vita si può far stare in un coagulo di tempo che occupa una giornata?
È passato un mese mentre scrivo queste righe. Ieri mi sono strappato quello che rimaneva dell’unghia del ditone destro, che aveva appena finito di ricrescere dopo la volta precedente. Ho qualche dubbio che la sinistra si salvi. Ha un aspetto piuttosto cinereo.
Valentina ieri ha pianto. Era da dopo la gara che, al di là della gioia e della soddisfazione – non soltanto gara conclusa, ma conclusa a metà della classifica generale e quattordicesima donna al traguardo – c’era un’ombra in lei, ogni volta che parlavamo di questo tema. Pensavo fosse semplice nostalgia per una bella esperienza, per un bel viaggio fatto insieme. Era qualcosa di più profondo. Ho riconosciuto uno sguardo mentre cercava di parlarmene senza trovare le parole. È come se avessi lasciato là una parte di te, vero? E lei scoppia in lacrime. Poi ride. E piange. Le ci è voluto un mese per elaborare l’emozione, adesso di colpo le è tutto chiaro. È come una storia d’amore che è finita, mi dice, una bella storia d’amore. Quello che abbiamo vissuto, il Monte Bianco, tutto.
Be’, io non sono un tipo geloso. E di certo non potrei essere geloso del Monte Bianco. Oggettivamente, non avrei speranze.